Qual è la cosa che tanto ti fa desiderare il cielo?

Chi può dire quanto mi riusciva amarissimo questo ritornare? A me pareva [che ritornare] dalle cose del cielo alle cose di questa terra, tutto era marciume, insipido, fastidioso; le cose che agli altri tanto dilettano, per me riuscivano amare; le persone più care, più ragguar­devoli, che altri chi sa quanto avrebbero fatto per trattenersi con loro, a me riuscivano indifferenti ed anche fastidiose, al solo riguar­darli come immagine di Dio mi pareva che potevo sopportarli, ma l'anima aveva perduta qualsiasi soddisfazione, nessuna cosa le recava la minima ombra di contento, ed era tanta la pena che sentivo, che non facevo che piangere e lamentare col mio amato Gesù. Ah! il mio cuore viveva irrequieto tra continue ansie e desideri, me lo sentivo più nel cielo che sulla terra, sentivo nell'interno una cosa che mi rodeva continuamente, tanto mi riusciva amaro e doloroso il dover continua­re a vivere.

Ma l'ubbidienza mise quasi un freno a queste mie pene, coman­dandomi assolutamente di non desiderare di morire, e che, allora do­vevo morire, quando il confessore mi dava l'ubbidienza.

Quindi, per fare la santa ubbidienza, facevo quanto più potevo a non pensarci, ché nel mio interno era una giaculatoria continua di desideri di volermene andare. Onde in gran parte il mio cuore si quietò, ma non del tutto. Confesso la verità, molto difettai in questo, ma che potevo fare? Non sapevo frenarmi, per me era un vero martirio. Il mio benigno Gesù mi diceva: «Quietati; qual è la cosa che tanto ti fa desiderare il cielo?». Io gli dicevo: «Che voglio stare sempre unita con voi! Non mi regge più l'anima di stare separata da voi, non solo per un giorno, ma neppure per un momento, quindi a qualunque costo voglio venirmene!». «Ebbene - mi diceva - se è per me, ti voglio pure contentare: verrò a starmene con te». Io, poi, gli dicevo: «Neh, poi mi lasciate, ed io vi perdo di vista; ma nel cielo non è così, là non vi potrò mai perdere di vista».

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