17° Volume - Dicembre 24, 1924 (26)

La prima pena che Gesù soffrì nel primo atto del suo concepimento, e che gli durò tutta la vita, fu la pena della morte.

I miei giorni sono sempre più dolorosi. Sono sotto al duro torchio della dura privazione del mio dolce Gesù, che[1] come ferro micidiale mi sta sopra per uccidermi continuamente; ma mentre sta sull’atto di tirare l’ultimo colpo per farla finita, me lo [lascia] sospeso sul mio capo, ed io aspetto come refrigerio quest’ultimo colpo, per andarmene al mio Gesù, ma invano aspetto! E la povera anima mia, ed anche la mia natura, me le sento consumare e disciogliere… Ahi, i miei grandi peccati non mi fanno meritare di morire! Che pena! Che pena! Che lunga agonia! Deh, mio Gesù, abbi pietà di me! Tu solo, che conosci il mio stato straziante, non mi abbandonare, né mi lasciare in balia di me stessa!

Ora, mentre mi trovavo in questo stato, mi son sentita fuori di me stessa, dentro di una luce purissima, ed in questa luce scorgevo la Regina Mamma ed il piccolo bambino Gesù nel suo seno verginale… O Dio! In che stato doloroso si trovava il mio amabile bambinello! La sua piccola umanità era immobilizzata; stava coi piedini e manine immobili, senza il più piccolo moto... Non c’era spazio, né per potere aprire gli occhi, né per poter liberamente respirare. Era tanta l’immobilità, che sembrava morto, mentre era vivo... Pensavo tra me: “Chi sa quanto soffre il mio Gesù in questo stato! E quanto la diletta Mamma, nel vederlo nel suo proprio seno così immobilizzato, l’infante Gesù!”.

Ora, mentre ciò pensavo, il mio piccolo bambinello, singhiozzando, mi ha detto: “Figlia mia, le mie pene che soffro in questo seno verginale della mia Mamma sono incalcolabili a mente umana... Ma sai tu quale fu la prima pena che soffrii nel primo atto del mio concepimento, e che mi durò tutta la vita? La pena della morte. La mia Divinità scendeva dal cielo pienamente felice, intangibile da qualunque pena e da qualsiasi morte. Quando vidi la mia piccola umanità per amor delle creature soggetta alla pene ed alla morte, sentii così al vivo la pe­na della morte, che per pura pena sarei morto davvero, se la potenza della mia Divinità non mi avesse sorretto con un prodigio, facendomi sentire la pena della morte e la continuazione della vita. Sicché, per me fu sempre morte: sentivo la morte del peccato, la morte del bene nelle creature, ed anche la loro morte naturale… Che duro strazio fu per me tutta la mia vita! Io, che contenevo la vita e ne ero il padrone assoluto della stessa vita, dovevo assoggettarmi alla pena della morte. Non vedi tu la mia piccola umanità immobile e morente nel seno della mia cara Madre? E non la senti tu, in te stessa, quanto è dura e straziante la pena di sentirsi morire e non morire? Figlia mia, è il tuo vivere nella mia Volontà che ti fa parte della continua morte della mia umanità”.

Onde me la son passata quasi tutta la mattina vicino al mio Gesù nel seno della mia Mamma, e lo vedevo che mentre stava in atto di morire riprendeva vita, per abbandonarsi di nuovo a morire... Che pena, vedere in quello stato l’infante Gesù…!

Dopo di ciò, nella notte stavo pensando all’atto quando il dolce bambinello uscì dal seno materno per nascere in mezzo a noi. La mia povera mente si perdeva in un mistero sì profondo e tutto amore. Ed il mio dolce Gesù, movendosi nel mio interno, ha messo fuori le sue piccole manine per abbracciarmi, e mi ha detto:

“Figlia mia, l’atto del mio nascere fu l’atto più solenne di tutta la creazione; cieli e terra si sentivano sprofondare nella più profonda adorazione, alla vista della mia piccola umanità, che teneva come murata la mia Di­vinità. Sicché nell’atto del mio nascere ci fu un atto di silenzio e di profonda adorazione e preghiera... Pregò la mia Mamma, e restò rapita per la forza del prodigio che da lei usciva; pregò San Giuseppe, pregarono gli angeli, e la creazione tutta sentiva la forza dell’amore della mia potenza creatrice, rinnovata su di essa... Tutti si sentivano onorati e ricevevano il vero onore, che colui che li aveva creati doveva servirsi di loro per ciò che occorreva alla sua umanità. Si sentì onorato il sole, nel dover dare la sua luce e calore al suo Creatore, riconoscendo colui che lo aveva creato, il suo vero padrone, e gli faceva festa ed onore col dargli la sua luce. Si sentì onora­ta la terra, quando mi sentì giacente in una mangiatoia: si sentì toccata dalle mie tenere membra e tripudiò di gioia con segni prodigiosi… tutta la creazione, tutti gli esseri creati, vedevano il loro Re e padrone in mezzo a loro, e sentendosi onorati, ognuno voleva prestarmi il suo ufficio: l’acqua voleva dissetarmi; gli uccelli, coi loro trilli e gorgheggi, volevano ricrearmi; il vento voleva accarezzarmi; l’aria voleva baciarmi; tutti volevano dar­mi il loro innocente tributo... Solo l’uomo ingrato, ad onta che tutti sentirono in loro una cosa insolita, una gioia, una forza potente, furono restii, e soffocando tutto non si mossero...; ad onta che li chiamavo con le lacrime, coi gemiti e singhiozzi, non si mossero, eccettuati alcuni pochi pastori. Eppure era per l’uomo che venivo sulla terra! Venivo per darmi a lui, per salvarlo e riportarmelo nella mia patria celeste. Quindi, ero tutt’occhio per vedere se mi veniva innanzi per ricevere il gran dono della mia vita divina ed umana. Sicché l’Incarnazio­ne non fu altro che un darmi in balia della creatura... Nell’Incarnazione mi diedi in balia della mia cara Mam­ma; nel nascere si aggiunse San Giuseppe, cui feci dono della mia vita; e siccome le mie opere sono eterne e non soggette a finire, questa Divinità, questo Verbo che scese dal cielo, non si ritirò più dalla terra, per avere occasione di darsi continuamente a tutte le creature.

Finché vissi mi diedi svelatamente, e poi, poche ore prima di morire, feci il gran prodigio di lasciarmi sacramentato, perché chiunque mi volesse, potesse ricevere il gran dono della mia vita… Non badai né alle offese che mi avrebbero fatte, né ai rifiuti di non volermi[2] ricevere. Dissi tra me: ‘Mi sono dato; non voglio più ritirar­mi, mi facciano pure quello che vogliono, ma sarò sempre di loro ed a loro disposizione’. Figlia mia, questa è la natura del vero amore, è l’operare da Dio: la fer­mezza ed il non ritirarsi a costo di qualunque sacrifizio. Questa fermezza nelle mie opere è la mia vittoria, la più grande della mia gloria, ed è questo il segno se la creatura opera per Dio: la fermezza. L’anima non guarda in faccia a nessuno, né alle pene, né a se stessa, né alla sua stima, né alle creature; ad onta che le costi la propria vi­ta, lei guarda solo Iddio, per il cui amore si è prefissa di operare, e si sente vittoriosa di mettere il sacrifizio della sua vita per amor suo. Il non essere fermo è della natura umana e dell’operare umanamente; il non essere fermo è l’operare delle passioni e con passione. La mutabilità è debolezza, è viltà, e non è della natura del vero amore; perciò la fermezza dev’essere la guida di operare[3] per me. Perciò nelle mie opere non mi cambio mai: siano [quel che siano] gli eventi, fatta [un’opera] una volta, è fatta per sempre.

 



[1] il duro torchio della dura passione

[2] nel non volermi

[3] dell’operare