17° Volume - Settembre 18, 1924 (14)

“Il vivere nella mia Volontà è regnare in Essa e con Essa, mentre il fare la mia Volontà è stare ai miei ordini”.

Stavo impensierita di ciò che sta scritto sul vivere nel Divin Volere, e pregavo Gesù che mi desse più luce per spiegarmi meglio, onde poter più chiarire, a chi sono in obbligo di farlo, questo benedetto vivere nella Divina Volontà.

Ed il mio dolce Gesù mi ha detto: “Figlia mia, si è purtroppo tardi a comprenderlo. Il vivere nella mia Volontà è regnare in Essa e con Essa, mentre il fare la mia Volontà è stare ai miei ordini. Il primo stato è possedere; il secondo è riceverne le disposizioni, eseguirne i co­mandi. Il vivere nel mio Volere è far sua la mia Volontà come cosa propria, è disporre di Essa; il fare la mia Vo­lontà è tenerla in conto come Volontà di Dio, non come cosa propria, né poter disporre di Essa come si vuole. Il vivere nella mia Volontà è vivere con una sola Volontà, qual è quella di Dio, la quale, essendo una Volontà tutta santa, tutta pura, tutta pace, ed essendo una sola Volontà che regna, non ci sono contrasti: tutto è pace; le passioni umane tremano innanzi a questa suprema Volontà e vorrebbero fuggirla, né ardiscono di muoversi, né di opporsi, vedendo che innanzi a questa Santa Volontà tremano cieli e terra... Sicché il primo passo del vivere nel Voler Divino, che fa dare ad una creatura l’ordine divino, è nel fondo dell’anima, dove la grazia la muove a vuotarsi di ciò che è umano, di tendenze, di passioni, d’inclinazioni ed altro. Invece, il fare la mia Volontà è vivere con due volontà, cosicché quando do gli ordini di seguire la mia, le creature sentono il peso della loro volontà, che vi mette contrasti, e ad onta che seguano gli ordini della mia Volontà con fedeltà, sentono il peso della natura ribelle, le loro passioni ed inclinazioni... E quanti santi, ad onta che siano giunti alla perfezione più alta, sentono questa loro volontà che loro fa guerra, che li tiene oppressi, e tanti sono costretti a gridare: ‘Chi mi libererà da questo corpo di morte? Cioè, da questa mia volontà che vuol dare morte al bene che voglio fare?’.

Il vivere nella mia Volontà è vivere da figlio; il solo fare la mia Volontà si direbbe, al paragone, un vivere da servo. Nel primo, ciò che è del Padre è del figlio; e poi, è ben noto che i servi sono costretti a fare più sacrifizi che non i figli. A loro spetta esporsi a servizi più faticosi, più umili, al freddo, al caldo, a viaggiare a piedi, e simili... Infatti, quanto non hanno fatto i santi, quantunque amici miei dilettissimi, per eseguire gli ordini della mia Volontà? Invece, il figlio sta con suo padre, tiene cura di lui, lo rallegra coi suoi baci e con le sue carezze; comanda ai servi come se comandasse suo padre; se esce non va a piedi, ma viaggia in carrozza...; e se il figlio possiede tutto ciò che è del padre, ai servi non si dà altro che la mercede del lavoro che hanno fatto, e restano liberi di servire o non servire il loro padrone, e se non servono non hanno più diritto di ricevere alcun altro compenso. Invece, tra padre e figlio, nessuno può togliere queste intime relazioni, con le quali il figlio possiede i beni del padre, e nessuna legge, né celeste né terrestre, può annullare questi diritti, come non può svincolare la figliolanza tra padre e figlio.

Figlia mia, il vivere nella mia Volontà è il vivere che più si avvicina ai beati del cielo, ed è tanto distante da chi semplicemente sta uniformato alla mia Volontà e la fa eseguendone fedelmente gli ordini, quanto è distan­te il cielo dalla terra, quanta distanza passa tra figlio e servo, tra re e suddito... E poi, questo è un dono che voglio fare in questi tempi sì tristi: che non solo facciano la mia Volontà, ma che la posseggano. Non sono forse io padrone di dare ciò che voglio, quando voglio ed a chi voglio? Non è padrone un signore di dire ad un servo: ‘Vivi in casa mia, mangia, prendi, comanda come un altro me stesso’? E per fare che nessuno possa impedirgli il possesso dei suoi beni[1], si legittima questo servo per figlio e gli dà il diritto di possedere. Se ciò può fare un ricco, molto più posso fare io. Questo vivere nel mio Volere è il dono più grande che voglio fare alle creature. La mia bontà vuole sempre più sfoggiare in amore verso le creature, ed avendo loro dato tutto, né avendo più che dar loro per farmi amare, voglio far loro dono della mia Volontà, affinché possedendola apprezzino ed amino il gran bene che posseggono. Né ti meravigliare se vedi che non capiscono; per capire dovrebbero disporsi al più grande dei sacrifizi, qual è quello di non dar vita, anche nelle cose sante, alla propria volontà. Allora sentirebbero il possesso della mia, e toccherebbero con mano che significa vivere nel mio Volere. Tu, però, sii attenta, né t’infastidire delle difficoltà che fanno, ed io a poco a poco mi farò strada per far capire il vivere nella mia Volontà”.

 



[1] impedire al servo il possesso dei beni del signore