Libro di Cielo - Volume 4°

Agosto 10, 1902 (141)

Privazioni, lamenti, e necessità dei castighi.

Trovandomi sommamente afflitta per la perdita del mio sommo Bene, il mio povero cuore è lacerato continuamente e subisce una morte continua. Ora venendo il confessore stavo dicendogli il mio povero stato, e lui ha incominciato a chiamarlo[1] ed a mettere intenzione; ma che, la mia mente lasciava[2] sospesa, per qualche istante vedevo come un lampo e sfuggiva, e ritornavo in me stessa senza vederlo. Oh, Dio, che pena! Ma son pene che neppure si sanno esprimere. Onde dopo aver molto stentato, finalmente è venuto, ed io querelandomi con lui, mi ha detto:

“Figlia mia, se non sapessi la causa della mia assenza, avresti forse qualche ragione di lamentarti della mia assenza, ma sapendo che non vengo perché voglio castigare il mondo, a torto ti lamenti”.

Ed io: “Che c’entra il mondo con me”.

E lui: “Sì c’entra, perché nel venire [io da te], tu mi dici: ‘Signore voglio soddisfarvi io per loro, voglio soffrire per loro’, ed io essendo giustissimo non posso ricevere dall'uno e dall'altro la soddisfazione d’un debito, e volendo prendere da te la soddisfazione, il mondo non farebbe altro che imbaldanzire sempre più; mentre in questi tempi di ribellione sono tanto necessari i castighi, e se ciò [io] non facessi, si farebbero tanto dense le tenebre, che tutti resterebbero accecati”.

Mentre ciò diceva, mi son trovata fuori di me stessa e vedevo la terra tutta piena di tenebre, appena qualche strascico di luce; che ne sarà del povero mondo, dà molto da pensare alle cose tristissime che succederanno.



[1] chiamare Gesù

[2] restava

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