Libro di Cielo - Volume 2°

Settembre 19, 1899 (73)

Gesù torna a parlarle della fede, della speranza e della carità.

Trovandomi questa mattina un poco turbata, specialmente sul timore che non è Gesù che viene, ma il demonio, e che non fosse Volontà di Dio il mio stato, mentre mi trovavo in questa agitazione, è venuto il mio adorabile Gesù e mi ha detto:

“Figlia mia, non voglio che ci perdi il tempo col pensare a questo; tu ti distrai da me e vieni a farmi mancare il cibo come nutrirmi, ma quello che voglio, [è] che pensi ad amarmi soltanto ed a starti tutta abbandonata in me; così mi appresterai un cibo a me molto gradito, e non di tanto in tanto come faresti se continuassi a fare così, ma continuamente. E non sarebbe questo tuo contento grandissimo, che la tua volontà, con lo stare abbandonata in me e con l’amarmi, fosse cibo di me, tuo Dio?”

Dopo ciò mi ha fatto vedere il suo cuore, e dentro vi conteneva tre globi di luce distinti, e che poi [ne] formava[no] uno solo; e Gesù riprendendo il suo dire mi ha detto: “I globi di luce che vedi nel mio cuore sono la fede, la speranza e la carità, che portai sulla terra per felicitare l’uomo sofferente, offrendogli[eli] in dono; onde anche a te ne voglio fare un dono più speciale”. E mentre così diceva, da quei globi di luce uscivano come tanti fili di luce che inondavano l’anima mia, come una specie di rete, ed io vi rimanevo dentro.

E Gesù: “Eccoti dove voglio che occupi l’anima tua. Prima vola sulle ali della fede, ed in quella luce, tuffandoti, conoscerai ed acquisterai sempre nuove notizie di me tuo Dio; ma col più conoscermi, il tuo nulla si sentirà quasi disperso e non avrai dove appoggiarti; ma tu sollevati di più, e gettandoti nel mare immenso della speranza, quali sono tutti i miei meriti che acquistai nel corso della mia vita mortale, tutte le pene della mia passione, che pure ne feci dono all'uomo, e che solo per mezzo di questo puoi sperare i beni immensi della fede, perché non c’è altro mezzo come poterli ottenere. Quindi tu avvalendoti di questi miei meriti come se fossero tuoi, il tuo nulla non si sentirà più disperso e sprofondato nell'abisso del niente, ma acquistando nuova vita, [la tua anima] resterà abbellita, arricchita in modo tale, d’attirarsi gli stessi sguardi divini. Ed allora, non più timidità, ma la speranza le somministrerà il coraggio, la fortezza, in modo da rendere l’anima stabile come colonna esposta a tutte le intemperie dell’aria, quali sono le varie tribolazioni della vita, che non la smuovono un tantino. E la speranza farà che, non solo l’anima senza timore s’immergerà nelle immense ricchezze della fede, ma se ne renderà padrona; e giungerà a tanto con la speranza, da rendere suo lo stesso Dio. Ah, sì! La speranza fa giungere l’anima dove vuole, la speranza è la porta del cielo, sicché solo per suo mezzo si apre, perché chi tutto spera tutto ottiene.

Onde l’anima, giunta che sarà a fare suo lo stesso Dio, subito, senza nessun ostacolo, si troverà nell'oceano immenso della carità; ed ivi portando con sé la fede e la speranza, s’immergerà dentro e farà una sola cosa con me, suo Dio”.

L'amantissimo Gesù continua a dire: “Se la fede è il re, la carità è la regina, la speranza è qual madre paciera che mette pace a tutto; perché con la fede, con la carità, ci possono stare le tribolazioni, ma la speranza essendo vincolo di pace converte tutto in pace. La speranza è sostegno, la speranza è ristoro; e quando l’anima sollevandosi con la fede, vede la bellezza, la santità, l’amore con cui da Dio viene amata, l’anima si sente attirata ad amarlo, ma vedendo la sua insufficienza, il poco che fa per Dio, il come dovrebbe amarlo e non l’ama, si sente sconfortata, turbata e quasi non ardisce d’avvicinarsi a Dio; subito esce questa madre paciera della speranza, e mettendosi in mezzo alla fede e alla carità incomincia a fare il suo uffizio di paciera; quindi mette in pace di nuovo l’anima, la spinge, la solleva, le dà nuove forze, e portandola innanzi al re della fede ed alla regina della carità, fa le sue scuse per l’anima, mette innanzi all'anima nuova effusione dei suoi meriti e li prega di volerla[1] ricevere. E la fede e la carità, avendo di mira solo questa madre paciera sì tenera e compassionevole, ricevono l’anima, e Dio forma la delizia dell’anima e l’anima la delizia di Dio”.

Oh, santa speranza, quanto tu sei ammirabile! Io m’immagino di vedere l’anima ch’è posseduta da questa bella speranza, come un nobile viandante che cammina per andare a prendere possesso d’un podere che formerà tutta la sua fortuna, ma siccome è sconosciuto e viaggiante tra terre che non sono sue, chi lo deride, chi l’insulta, chi lo spoglia delle sue vesti e chi giunge a bastonarlo e a minacciarlo di togliergli anche la pelle; ed il nobile viandante, che fa in tutti questi cimenti? Si turberà egli? Ah, non mai! Anzi deriderà coloro che gli faranno tutto questo; e conoscendo certo che quanto più soffrirà tanto più sarà onorato e glorificato quando giungerà a prendere possesso del suo podere, quindi lui stesso stuzzica la gente a fare che più lo potessero tormentare. Ma lui è sempre tranquillo, gode la più perfetta pace, ma quello ch’è più, mentre si trova in mezzo a que­st'insulti egli se ne sta tanto calmo, che mentre gli altri sono tutti desti intorno a lui, egli se ne sta dormendo nel seno del suo sospirato Iddio. Chi somministra a questo viandante tanta pace e tanta pazienza nel seguitare l’intrapreso cammino? Certo la speranza dei beni eterni che saranno suoi; ed essendo suoi supererà tutto per prenderne possesso. Poi, pensando che sono suoi viene ad amarli ed ecco che la speranza fa nascere la carità.

Chi può dire poi secondo la luce che Gesù benedetto mi fa vedere? Avrei voluto passarla in silenzio, ma veggo che la signora ubbidienza, deponendo la veste amichevole di amicizia, prende aspetto di guerriero e sta armando le sue armi per farmi guerra e ferirmi. Deh, non vi armiate così subito, deponete i vostri artigli! State quieta, che per quanto posso, farò come tu dici e così resteremo sempre amici.

Ora, portata l’anima nell’estesissimo mare della carità, prova delizie ineffabili, gode gioie inenarrabili ad anima mortale; tutto è amore, i suoi pensieri sono tante voci sonore che [essa] fa risuonare intorno al suo amantissimo Iddio, tutte [voci] d’amore che lo chiamano a sé, di modo che Iddio benedetto, tirato, ferito da queste voci amorose, ne fa il contraccambio, e ne avviene che i sospiri, i palpiti e tutto l’Essere Divino chiamano continuamente l’anima a Dio.

Chi può dire poi come resta ferita l’anima da queste voci? Come incomincia a delirare, come se fosse presa da febbre cocentissima? Come corre, quasi impazzita, e va a tuffarsi nell’amoroso cuore del suo diletto per trovare refrigerio, ed a torrenti succhia le delizie divine? Ella vi resta ebbra d’amore, e nella sua ebbrezza fa dei cantici tutti amorosi al suo sposo dolcissimo. Ma chi può dire tutto ciò che passa tra l’anima e Dio? Chi può dire su questa carità, qual è Dio medesimo?

In questo istante mi veggo una luce grandissima, e la mia mente ora rimane stupita; si applica ora ad un punto, ora ad un altro, e faccio per dettarlo[2] sulla carta e mi sento balbuziente nell’esprimerlo. Onde non sapendo che fare, per ora faccio silenzio; e credo che la signora obbedienza per questa volta voglia perdonarmi, che se essa vuole corrucciarsi meco, questa volta non ha tanta ragione, perché il torto è suo perché non mi dà una lingua spedita a saperlo dire. Avete inteso, reverendissima obbedienza? Restiamo in pace, non è vero?

 



[1] l’anima

[2] metterlo

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